La catena spezzata

romancebooks.it, 7 dicembre 2012

Venerdì, 7 dicembre, 2012 – 01:18

Intervista a Milly Nale

Tempo fa avevamo presentato nelle news “La catena spezzata” di Milly Nale, edito da Maglio Editore e il romanzo mi ha incuriosito tanto che ho voluto leggerelo e conoscere meglio la sua autrice, mia omonima.

Ciao Milly e benvenuta, ci vuole raccontare qualcosa di sé?

Mi chiamo Milly Nale, sono nata a Milano il 24 Luglio 1941.
Da quasi quindici anni vivo e lavoro in Manciano, nel Grossetano, dove assieme a mio marito gestisco un agriturismo, la “Residenza D’Epoca Le Pisanelle”, nei dintorni delle Terme di Saturnia.
La mia passione è scrivere racconti, poesie e romanzi.
Ho pubblicato il romanzo autobiografico Pensieri Notturni (2002), una raccolta di novelle per giovani, Intrecci (2006), il racconto della vita di due Milanesi “trapiantati” in Maremma, mio marito ed io, Un Anno in Maremma (2008), Il silenzio delle cicale (2010), Impronte sulla sabbia del tempo (2011), Ritratti e destini (2012).
Attraverso il premio letterario “Il romanzo” dello studio Tindari Patti ho pubblicato il romanzo La Signora della Malcontenta (2010).
Nel 2011 ho vinto il premio “Gaetano Cingari” con il libro Ciao padre che ha ottenuto il diritto di pubblicazione.
Con La catena spezzata mi sono classificata seconda alla prima edizione del premio letterario “G.C. Croce – Città di Persiceto”, indetto dalla Maglio Editore, che nel 2012 ha pubblicato il romanzo.

 

Domanda d’obbligo: come è nato questo libro?

La catena spezzata è nato come tutti i miei libri: per soddisfare il mio bisogno primario di scrivere, un bisogno che ho scoperto di possedere per caso. Non avevo mai pensato di scrivere. Poi un giorno, mentre stavo attraversando un brutto periodo di depressione, mia figlia, la mia terza figlia, mi suggerì: “Scrivi, mamma scrivi e vedrai che quei fantasmi che celi negli armadi, come tutti del resto, si scioglieranno come neve al sole”. Capii che aveva ragione e scrissi, e scrissi tutte quelle cose che celavo anche a me stessa. Da allora sono passati tanti anni, il mio primo libro non è più in vendita ma per me rappresenta ancora il coraggio di esporsi e di parlare al mondo, di poter tradurre in parole tutte quelle sensazioni che mi ispirano le bellezze e le ricchezze della vita stessa. Dopo due libri autobiografici ho capito che ero finalmente pronta per poter parlare e raccontare anche di altre persone. Fin da ragazza leggevo i libri di Delly, uno scrittore della mia epoca, forse a voi sconosciuto, ma che allora andava per la maggiore. Alcuni pensavano che fosse un prete, perché nelle sue storie il Bene trionfava sempre sul Male, altri ritenevano che Delly fosse donna: insomma era uno scrittore dal volto anonimo, che però era molto apprezzato grazie alla sua morale basata sulla bontà d’animo, sulla modestia, sulla sincerità, doti che finivano sempre per vincere su un mondo arido e opportunista. Ho confrontato la nostra attualità con quei libri e ho pensato che un ritorno a certi valori poteva essere uno sprono per le mie lettrici, per un ritorno a un mondo migliore. Come nei miei libri, le protagoniste del “signor Delly” erano sempre donne, coinvolte in situazioni difficili e avvolte da un alone di mistero che intrigava il lettore e lo faceva “precipitare” a volo tra le pagine del romanzo per conoscerne la fine. Queste situazioni erano il metro di misura del carattere delle protagoniste, che se alla fine riuscivano a vincere sul destino, all’inizio inevitabilmente avverso, era sempre e solo per merito loro. Alla fine i miei personaggi femminili capiscono che anche nel sogno c’è una morale, che la felicità si conquista solo e sempre attraverso una dura lotta e dure prove, che non è il “principe salvatore” che fa uscire dalle difficoltà. Nei miei romanzi l’uomo è spesso solo spettatore, che resta affascinato e si lascia conquistare dalle azioni della protagonista, la quale raggiunge sempre il suo obiettivo ma solo grazie ai suoi sacrifici e alle sue forze. Ho scritto La catena spezzata per tornare al quel mondo letterario, ritenendomi abbastanza maturata dal punto di vista della scrittura per lanciarmi in questa avventura.

la catena spezzataLe lettrici solitamente desiderano trovare ispirazione nei personaggi dei racconti che leggono: secondo lei, cosa può dire loro il personaggio di Virginia (Ginny)?
Che da forti emozioni si esce diversi, quasi che fermarsi quando ci si trova in mezzo a esse sia un imperativo, una necessità urgente di riflettere su ciò che veramente vogliamo dalla vita. È ciò che fa Ginny ed è quello che questo personaggio suggerisce di fare a tutte le lettrici.

In questo romanzo sembra prediligere un tipo di donna che non segue le parole d’ordine correnti e cioè: realizzazione delle proprie aspirazioni, ambizione, capacità di accettare le sfide della competizione… È così?

All’inizio del romanzo Ginny rappresenta la gioventù che vuol misurarsi con la vita e che su di essa si affaccia come su un palcoscenico, che pensa, solo perché è giovane, di potere tutto, che abbraccia l’ambizione, anzi, fa di essa la molla del suo vivere. In lei c’è molto di me stessa: io mi rivedo nella giovane Ginny, puledra scalpitante, convita di conquistare il mondo. Ma il tormento di questo vivere moderno frena le ambizioni di Ginny, che si accorge di non essere così moderna come crede. Ginny non è una donna del ventunesimo secolo e certamente non è una femminista: non a caso il romanzo è ambientato negli anni Sessanta. Al contrario Ginny capisce che l’uomo le è indispensabile per il suo equilibrio. Dapprima cerca questo equilibrio nell’uomo maturo che rappresenta per lei un po’ la figura paterna, perché secondo me la donna cerca sempre nell’uomo che ama la controfigura del padre stesso. Poi Ginny ha una relazione un partner che le dà sicurezza economica, ma capisce presto che anche questo non è il suo obiettivo principale: Ginny è una romantica e vuole l’amore. Lo trova, lo sperimenta… ma quel richiamo alla vita semplice è più forte dell’amore stesso. Rispondendo a quel richiamo, Ginny trova la sua sola e unica completezza e, come tutte le protagoniste di Delly, si fa sola interprete del proprio destino: Ginny va dove la sua vera identità le suggerisce di andare. Nei miei libri forse la figura dell’uomo appare un po’ appannata e non emerge troppo, ma alla fine le mie protagoniste non scelgono mai la solitudine affettiva e chiedono la mano maschile per poter intraprendere assieme il cammino della vita.

In caso affermativo, trova che ci sia bisogno di “normalità” nella letteratura che si rivolge essenzialmente a utenti donne? Diversamente, ha tratto forse ispirazione da qualche personale esperienza?

Quanto alla necessità di un ritorno alla “normalità” in letteratura credo che non sia solo un bisogno, ma un’assoluta necessità. Oggi quello che definiamo “letteratura” e che troviamo nelle librerie è spesso spazzatura, capace di proporre solo sesso, volgarità, situazioni ambigue. Io credo che si debba tornare al mondo classico. Con i miei libri propongo storie più “classiche”, che però, come i vestiti, non passano di moda, perché trasmettono valori e propongono sogni che aiutano sopportare la vita, che aiutano a evadere. I miei romanzi sono come le favole, che attraverso la loro morale fanno sperare. Si deve tornare a sognare in questo mondo terribile che sta brutalizzando ogni nostra necessità interiore. Si deve tornare al romantico. “In una romantica notte d’estate ho riscoperto il canto delle stelle cadenti…”: questo è il modesto augurio che faccio a tutte le mie lettrici, ma le invito anche a leggere di più. La letteratura apre gli orizzonti, qualsiasi essi siano!

Suscita curiosità la storia di un inglese che abbandona l’Inghilterra per stabilirsi subito a Vulcano.

Qual è stato il nesso, il richiamo o la necessità di mettere radici in un posto così fuori mano rispetto a circuiti tradizionali come il Chianti Shine, Capri, Venezia? Oppure, data l’origine e la storia famigliare di John Lakeland, non sarebbe stato più congeniale una scelta tipo Faenza, De De Ruta, Vietri e così via?
Sono sincera: tutto quello che so di Vulcano l’ho appreso documentandomi su questa isola. Non ci sono mai stata, ma volevo un luogo che fosse molto remoto e lontano dal turismo di massa. E volevo qualcosa di italiano, perché non sono esterofila, credo che in Italia possediamo angoli paradisiaci che tutto il mondo ci deve solo invidiare e che anche i libri devono aiutare a far conoscere. E quel vulcano… Quest’isola così sconosciuta, a me per prima, l’ho resa la residenza di un inglese, John Lakeland, proprio per valorizzare la nostra Italia. Quasi tutti i miei libri sono ambientati in Italia, perché sono italiana e voglio parlare della mia terra. Ho immaginato Vulcano come un Eden, dove tutto è silenzio e quiete, dove l’animo può ancora trovare rifugio, lontano da un vivere che soffoca la nostra interiorità. Io riscopro queste sensazioni nella mia Maremma, nei suoi silenzi, nei suoi cambi di stagioni, nella pace del suo verde, nelle sue infinite sfumature, e ho cercato di trasmetterle a un’isola dalle acque cristalline e dalle spiagge deserte, dove il sole al crepuscolo, affondando i suoi ultimi raggi nella calma di un mare sonnacchioso, fa provare quel meraviglioso e infinito senso di pace che poi altro non è che la felicità stessa.
LA CATENA SPEZZATA

Il racconto che ci propone l’autrice Milly Nale parte dall’isola di Vulcano, nelle Eolie, e riguarda essenzialmente la storia di Virginia (Ginny)  Lakeland, figlia dell’inglese John e dell’olandese Katrien. Il padre si è stabilito nell’isola molti anni prima e commercia, senza grandi risultati, in agrumi; sull’isola ha incontrato la moglie Katrien perchè molti anni prima il suocero si era innamorato di quei luoghi e vi aveva costruito una  bella e comoda residenza permanente. La vita dei tre trascorre serena e senza particolari problemi,  eccezion fatta per le scarse attitudini al commercio di John che rimangono tali pur avendo egli allargato la vendita ai capperi, prodotto eccellente dell’isola. Lo stesso futuro di Virginia sembra già tracciato dopo il diploma appena conquistato in una scuola privata di Palermo:  Giulio, un vicino di casa, costruttore edile di recente rimasto vedovo, sembra corrispondere al compagno di vita che Virginia e la famiglia si augurano.

Ma Virginia, pur essendo desiderabile e affascinante, è troppo acerba, semplice e sprovveduta (anche culturalmente) per interessare veramente Giulio, abituato allo stile e alle performance di una moglie bella e colta, stimata direttrice di una rivista d’arte di valenza internazionale. Nell’intento di stimolare le ambizioni di Virginia – carente in materia –  Giulio la stuzzica, la critica, la sprona fino al punto da indurla ad andare a New York per frequentare una università locale.
Prima che ciò avvenga, si era verificato un fatto molto strano. Una sconosciuta signora straniera, marchiata da una brutta cicatrice in volto e claudicante, aveva avvicinato Virginia a Palermo dicendo di essere sua zia Isabel. Il tono autoritario della signora, il riferirsi a suo padre con compatimento e l’invito perentorio di prendersi le sue responsabilità ritornando nella casa degli avi in Inghilterra, la indispone anche perchè lei non aveva mai saputo di avere una zia né dei famigliari in Inghilterra. Ne parla al padre aspettandosi dei chiarimenti che però le vengono rifiutati, anzi, le viene chiesto di non farne più cenno. Virginia si sente offesa dall’atteggiamento del padre, ma alla fine desiste perchè capisce che la storia famigliare è per lui una ferita ancora aperta e non vuole aggravare le sue precarie condizioni di salute.
La nostra giovane parte quindi per New York sentendosi maltrattata dagli uomini della sua vita, il padre John e Giulio. Il primo non la ritiene matura per comprendere le vicende della sua vita famigliare, il secondo la umilia facendogli capire che è una persona inadeguata. Virginia conoscerà a New York, fortunosamente, il giovane George Russel III, rampante membro di una ricca e prestigiosa famiglia dell’Upper Class,  scapolo d’oro negli U.S.A. Ma George, tutt’altro che facile preda,  rimarrà colpito dalla freschezza e dalla ingenuità di Virginia: se lei volesse, lui sarebbe pronto a sposarla, ma lei lo accetta solo come amico e per le sue doti di pigmalione che la trasformeranno in una donna elegante in grado di muoversi  disinvoltamente nel bel mondo che lui frequenta.
Giulio la raggiunge a New York per informarla che suo padre è gravemente ammalato: Virginia ritorna a Vulcano giusto in tempo per
assistere al suo funerale. Poco prima la ragazza aveva ricevuto un telegramma con il quale veniva informata che zia Isabel era deceduta ed era richiesta la sua presenza a Lakeland per l’apertura del testamento. Partire o non partire? Giulio non vorrebbe perchè avendo scoperto di amarla profondamente, ha paura di perderla. Lei parte dicendo a se stessa che deve scoprire quella parte della famiglia che il padre le ha risolutamente negato e le ragioni per cui sua zia Isabel, pur avendola fugacemente conosciuta, la ritiene centrale per gli interessi della famiglia incentrati, come appurerà, in una fabbrica di porcellane molto pregiate.
Virginia scoprirà le ragioni che hanno diviso radicalmente  suo padre dalla sorella Isabel; saprà di essere l’erede principale del maniero di famiglia e della fabbrica a determinate condizioni;  scoprirà il mastro disegnatore Mark rimanendo folgorata dal suo magnetismo; si renderà conto che da diverse generazioni i Lakeland sono governati da matriarche e che lei è stata prescelta per tale scopo. Per Virginia sarà una scelta molto difficile.

Il racconto non è privo di spunti interessanti e le concatenazioni “reggono”. All’autrice riconosco di non essere banale e probabilmente è una sua scelta quella di caratterizzarsi per uno stile semplice ed essenziale. Io penso che lei abbia la capacità di suscitare sensazion anche più complesse e profonde della pur gradita  piacevolezza che ci regala con questo libro.

 

ESTRATTO

Il sole ormai illuminava soltanto l’angolo in fondo al giardino, il punto verso cui Ginny si dirigeva, scendendo dal chiostro, per avvicinarsi alla panca dove sedeva madre Angela. Per un attimo i suoi capelli biondi scintillarono; poi la ragazza entrò nell’ombra camminando lentamente, una figura alta e sottile dal portamento eretto e dalle movenze aggraziate.
«Mi ha fatto chiamare, Reverenda Madre?».
Accennò al solito inchino rispettoso col quale le allieve si rivolgevano alle insegnanti, ma nel suo atteggiamento non c’era quasi più nulla che ricordasse la giovinetta diplomatasi il giorno innanzi. Madre Angela la guardava, trattenendo a fatica il sorriso divertito che sentiva tremare agli angoli della bocca. Aveva già visto tante volte quel mutamento. La maggior parte delle studentesse vi arrivava per gradi; per Ginny, invece, la trasformazione era stata immediata.
«Vedo che sei già pronta per partire, Ginny».
«Sì, Madre».
La ragazza aveva sostituito la gonna e la camicetta della divisa con un vestitino di cotone a righe senza maniche e si era raccolta i capelli sulla nuca con un nodo inesperto.
“Tra poco quella pettinatura crollerà” pensava madre Angela “ma per il momento Ginny ha raggiunto il suo scopo. L’indomani, nel tassì che la porterà all’aeroporto, si metterà il rossetto. Ci arrivano tutte prima o poi e tutte si illudono che noi suore non lo sappiamo. Devo riconoscere che è proprio una bella ragazza, ma la bellezza non la salverà dagli agguati della vita…”.
«Siediti Virginia. Volevo parlare un poco con te di tua zia, Isabel Lakeland. Purtroppo quando è venuta io ero a Palermo. Ora apprendo da suor Lucia che ripartirà domani mattina per Londra».
Ginny annuì, ma gli occhi azzurri erano guardinghi.
«Non posso, non riesco a immaginarla come una zia. L’ho chiamata signorina Lakeland…temo di essere stata molto scortese».
«Raccontami com’è andata» l’invitò madre Angela.
Ginny distolse lo sguardo. La reverenda aspettava, paziente. Le parole sarebbero venute da sole. Gli avvenimenti della giornata avevano reso la ragazza scontrosa e irritata, ma l’intimità che quel giardino faceva nascere spontaneamente non avrebbe mancato di esercitare il solito fascino.
Madre Angela si preparò ad ascoltare.

Era stata la fine dell’obbedienza a regole imposte e, in un certo senso, la fine dell’innocenza, avrebbe pensato Ginny in seguito, ricordando quell’ultimo giorno nel convento Cristo Re a Palermo. Le suore ammonivano le studentesse dicendo che da quel momento ciascuna di loro avrebbe dovuto imporsi la propria disciplina. Quanto alla fine dell’innocenza…su quell’argomento erano molto più reticenti, anche se sapevano bene che le ragazze si sentivano ormai troppo adulte per la divisa del collegio e che le voci del mondo esterno si facevano per loro urgenti e irresistibili. Ma soprattutto Ginny avrebbe ricordato quel giorno come quello in cui si era resa conto che il fatto di chiamarsi Lakeland aveva un’importanza particolare, come quello in cui la sua esistenza cambiò per sempre.
Il giorno prima erano stati distribuiti i diplomi e quel mattino l’ultima Messa per le “grandi” aveva assunto una particolare solennità. Ginny non era cattolica, ma si era inginocchiata in fondo alla cappella, desiderosa di prendervi parte con le compagne.
E, dopo la Messa, c’era stata la colazione delle occasioni speciali.
L’indomani sarebbero arrivati i genitori e la scuola sarebbe rimasta deserta.
Con i bagagli quasi pronti Ginny si portò un libro in giardino. Quando suo padre sarebbe arrivato, avrebbe avuto l’ultimo colloquio con la Madre Superiora, un colloquio un po’ più lungo rispetto a quello delle altre alunne, perché John Lakeland aveva conosciuto la Reverenda Madre in Inghilterra quando erano entrambi ragazzi. E poi tutto sarebbe finito e lei avrebbe dovuto imparare a cavarsela nel mondo al di là delle mura del convento, il mondo degli uomini.
«Ginny!».
La ragazza aprì gli occhi. Luisa, una sua compagna di classe, stava venendo verso di lei.
«Svegliati Ginny» disse Luisa ridendo. «Suor Lucia dice che c’è una visita per te. Immagino sia tuo padre».
Ginny si raddrizzò.
«Già?».
Porse il libro alla compagna.
«Luisa, per favore riportalo in biblioteca. Se prendiamo l’elicottero nel pomeriggio per Vulcano bisognerà che mi sbrighi».
«D’accordo, ma a una condizione: fa venire qui tuo padre a chiacchierare con me, mentre chiudi le valigie. Mi piace da morire tuo padre…sembra un attore cinematografico inglese».
«Gli riferirò quello che hai detto» disse Ginny divertita, ma entrambe sapevano che non l’avrebbe fatto. John Lakeland sarebbe diventato tutto rosso per l’imbarazzo sentendosi oggetto di un simile apprezzamento. Mentre correva verso il convento, rifletteva tra sé che Luisa aveva ragione riguardo all’aspetto di suo padre: era davvero un uomo fuori dal comune. Alcuni lo trovavano troppo altero e distante, ma non passava certamente inosservato. Ginny gli voleva un gran bene; non glielo aveva mai detto apertamente, ma si ripromise di trovare presto il modo per farlo.
Diede uno strappo alla campanella della porta del convento e, un istante dopo, la faccia bruna di suor Lucia fece capolino.
«Ah, Virginia! Sbrigati figliuola! Ho fatto accomodare la signorina Lakeland nel primo salottino».
Ginny si arrestò di colpo.
«C’è un errore suor Lucia. Non esiste nessuna signorina Lakeland…dev’essere la mamma che è venuta al posto di mio padre».
«Non è tua mamma, cara. È tua zia…la signorina Lakeland».
«Io non ho nessuna zia!».
Suor Lucia era vecchia e i problemi la infastidivano. Sembrò turbata.
«Me l’ha detto lei, Virginia». Poi un dubbio più grave la colpì. «Madre mia! E se fosse una ladra?».
La suorina guizzò oltre Ginny facendo svolazzare il velo nero e si affrettò lungo il corridoio fino al salottino che custodiva arredi e porcellane di valore. Ginny la seguì correndo in punta di piedi, com’era uso nel convento.
La suora spalancò la porta senza usare la solita discrezione e ciò che vide le fece mandare un grido di costernazione: «Madre mia! Lo sapevo, una ladra!».
Indietreggiò di un passo tutta tremante e Ginny scrutò sopra la sua spalla.
Nella stanza, una donna alta e magra si voltò tranquillamente verso di loro. Gli sportelli della cristalliera, in cui era esposta una preziosa collezione di porcellane antiche, erano aperti e la sconosciuta teneva in mano un piatto.
«Virginia…presto! Corri in cucina e chiama suor Ursula. Io…io intanto la chiuderò dentro! Corri Virginia, corri!».
La vecchia suora aveva la voce stridula per l’eccitazione e stava già per chiudere la porta a chiave quando:
«Un momento!» il tono della donna fu perentorio.
Con calma, la visitatrice rimise il piatto al suo posto e si scosse via dalle mani un’invisibile traccia di polvere. Poi si voltò con aria gelida verso di loro.
«Stavo solo esaminando la porcellana. Vi assicuro che non sono una ladra».
«Signorina» balbettò suor Lucia «cerchi di capire, la prego, questa collezione è di grande valore. La Reverenda Madre l’ha portata nel nostro convento dall’Inghilterra. È proibito toccarla».
«Si calmi, suora!» replicò la donna, spazientita. «Non ha avuto alcun danno, come vede. E quanto al valore, ci sono sì uno o due pezzi buoni, ma ce ne sono altri assolutamente scadenti».
La suora era titubante.
«Credo che vada tutto bene suor Lucia» intervenne Ginny d’impulso. «Questa signora é…». Ginny non aveva mai sentito parlare di quella donna prima di allora, ma le sembrava di ritrovare in lei i lineamenti del padre, il suo modo di parlare, perfino il suo portamento. «So chi è questa signora» concluse.
«Se lo dici tu» borbottò la suora riluttante.
Suor Lucia si ritirò e chiuse la porta dietro di sé lasciando Ginny e la signorina Lakeland una di fronte all’altra.
«Be’» osservò la signorina Lakeland «suppongo d’aver fatto una cattiva impressione. Non si sa mai cosa contengono le menti tenere di questi conventi».
C’era disprezzo in quelle parole e subito la ragazza sentì il bisogno di difendere la vecchia suora.
«Mi risulta» replicò risoluta «che le regole della buona educazione siano sempre le stesse, in un convento come altrove».
«Vuoi dire che sono stata scortese?» domandò la donna. «Touché!».
Si strinse nelle spalle e rise, girandosi verso la luce.
Ginny trattenne involontariamente il respiro.
La guancia della donna era attraversata da un segno livido e quasi violaceo che arrivava fino al naso; non una voglia, ma la deturpante cicatrice di un’antica ferita. Nonostante questo, la donna aveva un viso bello, anche se duro.
«È stata una scossa tremenda per la dolce suor Lucia» spiegò Ginny. «Quell’armadietto lo può aprire solo la Reverenda Madre. Io personalmente non l’avevo mai visto aperto, prima d’ora».
Suo malgrado sorrideva leggermente, quasi provando un senso di ammirazione per la persona che aveva avuto il coraggio di prendere in mano le mitiche porcellane del convento. Quella donna era molto sicura di sé, una qualità alla quale Ginny aspirava con tutte le sue forze.
«M’ha fatto piacere vedere un piatto da vicino, una volta tanto…Sembrava quasi prendere vita in mano a lei» si affrettò ad aggiungere per giustificare il proprio sorriso.
«Esatto» il tono, ancora asciutto, era più caldo ora e la donna sorrideva a sua volta «ma fanno bene a tenerli là dentro. Nessuna cosa bella dovrebbe essere a portata di mano degli sciocchi».
Bruscamente si staccò dalla cristalliera e zoppicando si avvicinò a una sedia.
«Vogliamo accomodarci? No, qui bene in luce. Voglio vederti in faccia».
Ginny obbedì. Quella donna doveva essere abituata a comandare.
«Come le assomigli! È sorprendente, parola mia. Me lo sono domandato spesso se avessi qualche somiglianza con Jane».
Ginny si sentì sotto giudizio.
«Jane?».
«Possibile che John non te ne abbia parlato? Sto parlando della nonna di tuo padre. Una donna veramente eccezionale! Sei sicura che lui non ti abbia mai detto nulla?».
«Non ho mai sentito nominare nessuno della famiglia di papà. Credevo che fosse sempre stato solo al mondo».
«Dovevo immaginarlo» replicò irritata la donna. «Quando lasciò l’Inghilterra, disse che non sarebbe tornato mai più. Fu una vera sorpresa constatare che faceva sul serio…non era mai stato quel che si dice “un carattere forte”. Ma tenere sua figlia all’oscuro della storia della famiglia, suvvia!».
«Ma io so tutto sulla nostra famiglia. Il nonno Van Meerten…».
La signorina Lakeland diede un’alzata di spalle.
«Non mi riferivo al ramo olandese…per quanto meglio un’olandese che un’italiana, se proprio doveva sposare una straniera».
«Siamo tutti stranieri qui!» esclamò Ginny.
«È questo quel che t’insegna? Già mi sembra di sentirlo…diceva sempre le cose più assurde, più campate in aria. Una testa matta e ostinata…ostinatissima! Ma chi avrebbe pensato che potesse tener duro per tanto tempo? Sono più di trent’anni che aspetto di vederlo ricomparire in Inghilterra per riconoscere il suo errore…be’, pazienza, ormai è acqua passata. Vedo che comunque toccherà A me insegnarti la storia della famiglia. È una storia considerevole, risale a moltissimo tempo addietro».

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